Un po’ di anni fa chiacchieravo con un massaggiatore di non so più che squadra di professionisti.
Mi raccontava una vita strana, fatta di notti in hotel, di serate a parlare di bici con gregari, di massaggi fatti con la tv accesa con i commenti alla tappa.
Mi raccontava di corridori che gli strappavano letteralmente di mano la borsa con i viveri.
“Il pubblico li vuole così, velocissimi” mi diceva.
E io capivo poco. E ho continuato a capire poco, di quel modo di fare competizione, di quel modo di interpretare lo sport.
Io sono un ciclista ciccione, non sono mai andato forte (nemmeno in discesa). Qualche volta sono andato lontano, ma forse nemmeno tanto.
Eppure la bici è una cosa al limite dell’incredibile una cosa che permette delle sensazioni formidabili quando pedali, e che regala emozioni incredibili quando si vedono le imprese dei grandi, che riescono a scalare le vette, che ci danno, ogni volta, nuove declinazioni del concetto di abnegazione, di coraggio, di forza.
Poi leggiamo di Froome, e si rimane male. Si rimane male perché non si capisce più.
Oggi mi sento un po’ come quando arrestarono Albertosi (storico portiere del Milan negli anni ’70) per il calcio scommesse. Ero un bambino a cui crollò in testa il cielo. Il mio mito era un mercenario: quello delle figurine, quello che impersonavo nelle interminabili partitelle sulla spiaggia. Da allora il calcio non lo seguo più.
E Froome (e mille altri) contribuiscono a togliere il senso a uno sport che è, lo sappiamo, meraviglioso.
Perché quando lo sport è solo show business non c’è più niente di meraviglioso. Avete in mente il wrestling? Ecco, siamo sempre più vicini a interpretare il ciclismo in quel modo lì.
E si vede che si perde il senso, e si vede che invece la voglia di bici, la voglia di correre, di provare l’esperienza della salita, della fatica, della sofferenza, del cogliere l’obiettivo è immutata. Perché siamo in tanti che fatichiamo in bici, e siamo in tanti che godiamo del pedale.

Cosa c’entra Frome con il gravel? Beh è una banale somma aritmetica. Un altro pedalare è possibile. Un pedalare che pensa a sé, che insegue la voglia di fare cose grandi, potenti, straordinarie. E che coniuga l’impresa sportiva, la forma fisica, la voglia di centrare l’obiettivo con un approccio sano. Un approccio che ci porta a vedere il mondo e non la macchinetta misura performance. Che ci porta fuori dalle strade battute e ci manda nei boschi e sulle montagne.
Un mondo fatto di esperienza, di voglia di avere la bici giusta, di allenamento e di performance. Dove non manca però il terzo tempo. Le chiacchiere e il pane e salame. Dove la competizione non è il fine ma il mezzo.
Un mondo che forse potrebbe regalare alla bicicletta qualche storia bella da raccontare, fuori dal coro.