Sempre gravel! Cinghiette, fondelli di daino, pasta di fissan e olio di canfora

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di Mariano (MarianONE) Colantoni

Erano almeno 15 anni che non tornavo sulle strade in cui ho cominciato a fare ciclismo.
Ora abito in una zona diametralmente opposta di Roma e questo a Roma vuol dire essere a decine di km di distanza da un quartiere all’altro e soprattutto comporta che quando si esce, magari anche alla ricerca di sterrato e ghiaia, lo si faccia attraverso consolari e direttrici completamente diverse e che difficilmente si incrociano (lo sapete cari che “Omnes viae Romam ducunt”).
Queste strade su cui ho cominciato alla fine dei ’70, da esordiente e poi allievo, juniores e dilettante, tracciano una rotta principalmente tiburtina, in direzione Guidonia, Marcellina e Palombara, poi verso Tivoli e oltre (quando cominciai a fare i km veri arrivai a mi spingermi fino ai confini con l’Abruzzo, Monte Livata, Arcinazzo e i Simbruini.)

Era un ciclismo diverso, molto diverso da quello di oggi, sia per chi praticava l’agonismo (i “corridori” come me allora) sia per chi si dilettava di uscite in bici.

Avevamo bici d’acciaio (con qualcosa in alluminio) e i gruppi erano tutti Campagnolo, i jappi arrivarono dopo, non avevamo certo i GPS né i telefoni, non pianificavamo i giri sulle mappe, andavamo a km da fare e salite da macinare.
Avevamo pantaloncini e maglie di lana con ricamato sopra il nome della squadra e il fondello era di pelle di daino spalmato di pasta fissan.
Gli scarpini erano di cuoio con i puntapiedi e le cinghiette sui pedali, i guantini con ricamo di uncinetto e inserti in pelle anche loro.

Il carbonio era solo un elemento chimico che in salita si legava al poco ossigeno rimasto nei polmoni.


Il profumo pungente dell’olio canforato nei massaggi pre-gara resterà nei miei ricordi per sempre.
Come le pallose sessione sui rulli (i rulli cazzo, difficile starci sopra quasi quanto camminare sulla corda sospesi nel vuoto), specie come riscaldamento nelle gare in pista.
Ci alimentavamo in modo meno maniacale, mia Mamma mi urlava mentre stavo uscendo per l’allenamento “Marià hai preso gli zuccherini? E le marmellatine? Hai l’acqua nella borraccia?”.

E si, le zollette di zucchero e i gel di marmellata. I Sali e gli integratori arrivarono molto tempo dopo, ricordo il mio “allenatore” (il mio grosso fratello) che arrivò un giorno con queste bustine di integratori di sali minerali che davano ai ferrovieri…in alternativa si andava di bananone.

E poi ci si incontrava tutti per strada, ognuno partiva da casa in bicicletta, gli orari erano laschi, si usciva la mattina presto il sabato e la domenica oppure i pomeriggi saltando lo studio.

Se si restava per strada per qualche problema ci si aiutava e poi avevamo sempre in tasca qualche gettone per chiamare casa per emergenze estreme.

Ecco, la domenica arrivavo a casa per pranzo alla fine di un estenuante allenamento e dalla enorme cucina di casa arrivavano tutti quei profumi di sughi e paste, carni e ogni ben di dio (famiglia di cuochi/e e mangioni/e la mia), anche se poi avendo il “CT” in casa, sempre mio fratello, si trattava soprattutto di mangiare pasta e carni bianche, niente alcol e niente roba gassata, niente insaccati, era dura cazzo.
Niente mare che il sale danneggia le “gambe”.
Poche pippe che poi non ce la fai e sei spompato.
Niente disco il sabato notte che poi la domenica c’è la “corsa”.
E le lotte col resto della squadra per decidere dove andare a correre, io volevo la pianura, gli scalatori le gare con tanta salita (infatti preferivo quando possibile abbandonare le gare su strada per quelle in pista).
E poi si leggevano le classifiche sui giornali della FCI o della UISP e si tenevano le coppe ad ossidare a casa (io spesso quella dell’ultimo arrivato).
E ai traguardi volanti delle “corse” si vincevano salami e prosciutti (che poi comunque l’allenatore mica ce li faceva mangiare).
Era un ciclismo antico, non lo definirei “eroico”, sicuramente più semplice, con meno fronzoli e meno sovrastrutture mentali (le famose “pippe mentali”).
Ecco, facendo questo giro oggi, un giro semplice, su strade piene di tanti ciclisti, ho respirato quei profumi e provato le sensazioni di allora, pedalando come tanti anni fa una bici in acciaio dalle forme sicuramente più vicine alla bici che avevo a quei tempi che a certi mostri in carbonio di oggi…ed anche in questo mi sento vicino alla definizione di “gravel”.
Non dico che lo preferisco quel ciclismo li a quello di oggi, dico solo che mi manca, mi manca quella semplicità e quella naturalezza di allora.
O semplicemente, come a tutti spero, mi manca la mia giovinezza e soprattutto mi manca la mia Mamma!

PS: che poi è stato un giro lungo (ma mannaggia non solo arrivato ai 100 Km) ma soprattutto su bitume (comunque sempre pieno di buche) tra Guidonia, Marcellina e Tivoli, con qualche brevissima digressione su sterrato.
E allora che hai fatto di gravel Marià?
A parte tutto il pippone di cui sopra, ieri notte sono rientrato alle 2, cionco di vino come un Alpino al raduno….e alle 8 ero sul sellino, se non è Gravel questo…

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